I Reduci raccontano dal vivo…

ardito

 

 


COMMOSSI RINGRAZIAMO COLORO CHE CI HANNO PERMESSO DI GIOIRE DI QUESTE TESTIMONIANZE DI EROI CHE RIMARRANNO PRESENTI PER SEMPRE AI  POSTERI E NEI NOSTRI CUORI. PER NON DIMENTICARE

il reduce«Non avevamo più munizioni nè rinforzi,  da dietro non ci arrivava più nulla. In compenso, un intero battaglione di  tedeschi era scatenato all’attacco e minacciava di accerchiarci. Avevamo  centinaia di prigionieri con noi, che avevamo catturato il giorno prima… Il  pomeriggio del 25 ottobre siamo dovuti fuggire a gambe levate da Caporetto». Delfino Borroni ha centosei anni. Ma ha ancora molta voglia  di raccontare le sue avventure di soldato della Grande Guerra, quella di cui  oggi si celebra la conclusione, vittoriosa per l’Italia e le potenze alleate,  ma disastrosa per l’Europa. Oggi vive nella Casa di Riposo San Giuseppe di Castano  Primo (MI). Nato il 23 agosto 1898 a Turago Bordone (PV), per 38 anni, dopo la Grande guerra, è stato  macchinista sul Gamba de Legn, il tram che univa ai tempi Castano Primo  e Magenta con Milano. Cinque sorelle e tre fratelli, si è spostato a Castano  nel ’25, al matrimonio, poi ha avuto figli, nipoti e pronipoti. «Fui mandato di pattuglia, in  retroguardia. Andare di pattuglia mi faceva battere forte il cuore,  c’era in qualsiasi momento il rischio di essere accerchiati, noi ci andavamo a  squadre, i nemici a plotoni interi – prosegue Borroni -. Solo la trincea era un  riparo sicuro. I tedeschi ci sparavano mentre ci nascondevamo dietro dei mucchi  di terra. Nella fuga io sono caduto e ruzzzolato giù, fingendo di essere morto,  poi sono riuscito a riprendere la strada della montagna e raggiungere il mio  reparto, dove ormai mi davano per caduto. Ero ferito al tallone, zoppicavo, il  mio maresciallo poi mi disse: “Nessuno sarebbe riuscito a salvarsi da lì,  solo un vero scoiattolo come te poteva farcela!”».
La Storia si  dipana nel racconto di chi l’ha vissuta, mentre le emozioni e i ricordi  fluiscono rapidi e sicuri in quest’uomo, cui l’età ha tolto la vista ma non la  lucidità. «Un giorno ci caricarono in treno e ci spedirono a Caporetto -  ricorda ancora il reduce della prima guerra mondiale -. Era il 23 ottobre del  1917: il giorno dopo gli austro-tedeschi attaccarono in forze e  sfondarono, e noi, dopo aver pure preso dei prigionieri, tra cui, ricordo, un  ragazzino di diciassette anni appena, classe 1900, che si arrese a me, fummo  costretti a ritirarci aprendoci la strada in qualche modo, nel caos più totale,  fino a Cividale, e fermandoci di tanto in tanto ad opporre resistenza. Poco  dopo Cividale ci presero, il capitano e l’attendente erano stati colpiti  durante un combattimento sul greto in secca di un torrente. Ci guardavano  cattivi. “Ma bravi” ci dicevano, “prima ci sparate poi ci dite  Gut Kamerad?”» Da lì la prigionia, prima  a Cividale, poi in Austria. «Andando verso l’Austria, a piedi, ripassammo per  Caporetto. Uno scenario di morte e distruzione. Cadaveri di italiani,  austriaci, tedeschi. In Austria, la fame per tutti, l’odio, ci  chiamavano Schweine, maiali, anche se è vero che alcuni dei nostri non si  comportavano bene. Gli austriaci stessi avevano ben poco da mangiare. Per  fortuna ci rimandarono in Veneto a scavare trincee – tutti i loro uomini ancora  validi erano al fronte – e lì perlomeno ce la si cavava con un po’ di frutta  rubacchiata qua e là. Un anno intero, dopo Caporetto, hanno campato gli  austroungarici sui depositi della sussistenza catturati all’esercito italiano!»
Poi la fuga, avventurosa e picaresca, da Vittorio Veneto, poi da  Conegliano, subito dietro le linee austroungariche, negli ultimi giorni di  guerra. «Fuggimmo perchè gli austriaci noon avevano più niente, non ci  avrebbero più dato neanche da mangiare. Camminammo fino in Friuli, ricorderò  sempre i contadini, una signora a Spilimbergo mi prese a darle una mano  con un po’ di lavori e mi diede un bel pezzo di polenta, le dissi: “Giuro  che con questa ci campo due settimane…”».
In centosei anni Delfino Borroni si è visto cambiare attorno il mondo in modo  incredibile. C’è qualche ricordo, al di là della guerra, che ancora lo  colpisce. «Le biciclette erano una rarità e un lusso, quand’ero ragazzo. La  gente faceva i chilometri a piedi per andare a lavorare. La carne si mangiava  nei giorni di festa: per il resto si mangiavano zuppe, latte, riso, le  minestre… magari con le rane, che acchiappavamo nelle risaie a costo  di prenderci qualche schioppettata. Erano così buone, le rane nella minestra  come le faceva mia mamma Giuseppina». E Pinuccia è anche il nome di una delle  figlie del signor Borroni. La cosa davvero paradossale è che il signor Borroni fu ferito più gravemente  nella Seconda Guerra Mondiale, in cui era civile, che nella Prima in cui  era stato soldato. «Sì, fui colpito mentre guidavo in un bombardamento aereo alleato… Cercavano di abbattere tutti i ponti sul Ticino. Mi hanno distrutto  la macchina, e ho passato trentasette giorni in ospedale. Ma era una guerra molto  diversa, quella, senza trincee».